Cassazione Civile: “Diffamazione televisiva, opinioni espresse da un parlamentare e risarcimento del danno”

(Franco Abruzzo.it) – “Deve esistere un legame funzionale fra l’opinione espressa o gli atti compiuti e l’esercizio di funzioni parlamentari. E ciò, perché, non qualsiasi opinione espressa dai membri delle camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni.

La ragione giustificatrice di un tale assunto è che la prerogativa dell’insindacabilità non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe un’immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera qualità di parlamentare”. La norma costituzionale non ha inteso tutelare l’attività politica del parlamentare, ma soltanto quelle specifiche attività in cui si riflette l’esercizio della funzione parlamentare. E’ stata condannata a risarcire i danni anche l’emittente televisiva in quanto “pienamente consapevole dei contenuti generali e delle connotazioni tipiche della trasmissione, andata in onda per anni, in fasce orarie di rilevante ascolto, proprio perché basata sulla nota vis polemica del conduttore" (peraltro nella fattispecie non si trattava di dichiarazioni andate incidentalmente in onda nel corso di una trasmissione in diretta, ma di una precisa scelta editoriale diretta alla realizzazione di un programma incentrato esclusivamente sulle capacità polemiche del conduttore/parlamentare).
 
di Sabrina PERON
 
L’art. 68 Cost. stabilisce che i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Nella giurisprudenza costituzionale, la citata norma, è stato interpretata nel senso che essa non riguarda solo gli atti tipici del parlamentare, ma comprende anche ciò che di essi sia presupposto o conseguenza. Questo significa che l’attività è giustificata quando sia divulgativa all’esterno di attività parlamentare, ossia se ed in quanto esista una sostanziale corrispondenza di significato con opinioni già espresse o contestualmente espresse nell’esercizio di funzioni parlamentari.
Osserva la Cassazione, come tale disciplina, nella sua sostanza, sia “rimasta immutata anche dopo la L. 140/2003, la quale all’art 3, stabilisce che l’art. 68 Cost. si applica, in ogni caso, per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare, per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento”. In altri termini, la norma, pur ampliando il concetto di espressione del voto garantito, non modifica il principio del legame funzionale, necessario per la configurazione della giustificazione contenuta nel testo costituzionale, fra le opinioni espresse o gli atti compiuti e l’esercizio di funzioni parlamentari.
La Cassazione nella sentenza (Cass. civ., sez. III, 19 dicembre 2008, n. 29859, pres. Segreto, rel. Vivaldi) che qui si pubblica difatti ribadisce che – con riferimento all’attività espletata fuori del Parlamento – deve esistere un legame funzionale fra l’opinione espressa o gli atti compiuti e l’esercizio di funzioni parlamentari. E ciò, perché, non qualsiasi opinione espressa dai membri delle camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni. La ragione giustificatrice di un tale assunto è che la prerogativa dell’insindacabilità non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe un’immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera qualità di parlamentare.
Sulla scorta di tali presupposti la Cassazione ha confermato il precedente giudizio di merito che, dando conto dell’excursus normativo e giurisprudenziale in materia – ha ritenuto che non qualsiasi dichiarazione avente un qualche contenuto "politico" (nel senso generico del termine e, magari, come accaduto nella fattispecie in esame, che si concretano nella mera ed esplicita denigrazione dell’avversario politico) è sempre riconducibile alla funzione parlamentare. Difatti, la norma costituzionale non ha inteso tutelare l’attività politica del parlamentare, ma soltanto quelle specifiche attività in cui si riflette l’esercizio della funzione parlamentare.
Con riferimento infine alla problematica risarcitoria la Cassazione ha ribadito come in forza di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. la stessa non è più legata esclusivamente alla configurazione di un reato.
Difatti, nel vigente assetto dell’ordinamento (nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.
 Si deve quindi ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di "danno non patrimoniale", inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come "danno morale soggettivo".
Osserva la Corte che “ciò che rileva, infatti, ai fini dell’ammissione al risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c. è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica”.
Quanto, poi, al limite al quale l’art. 2059 c.c. assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p., la Cassazione ha ritenuto di aderire al consolidato orientamento secondo cui, venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, va escluso che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185.
Difatti, una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti.
Occorre dunque considerare – afferma la Cassazione “che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto, la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in un rifiuto di tutela nei casi esclusi”.
La Cassazione ribadisce poi che queste considerazioni conducono – quindi – a ritenere che nella struttura dell’art. 2043 c.c., l’illecito sia perfezionato anche dalla sola colpa.
Sulla base di tali presupposti è stata condannata a risarcire i danni anche l’emittente televisiva in quanto “pienamente consapevole dei contenuti generali e delle connotazioni tipiche della trasmissione, andata in onda per anni, in fasce orarie di rilevante ascolto, proprio perché basata sulla nota vis polemica del conduttore" (peraltro nella fattispecie non si trattava di dichiarazioni andate incidentalmente in onda nel corso di una trasmissione in diretta, ma di una precisa scelta editoriale diretta alla realizzazione di un programma incentrato esclusivamente sulle capacità polemiche del conduttore/parlamentare).
Inoltre il fatto che vi fossero mandate in onda delle repliche della stessa trasmissione, è stato ritenuto fonte di una "specifica responsabilità connessa alla circostanza che la trasmissione era sistematicamente oggetto di repliche nell’ambito della stessa giornata, in una diversa fascia oraria”, non avendo in questo caso alcun senso “parlare di estraneità dell’emittente televisiva rispetto al prodursi del fatto dannoso che deriva dalla messa in onda di dichiarazioni diffamatorie". 
 
Autorità: Cassazione civile sez. III
 
Data: 19 dicembre 2008
 
Numero: n. 29859
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 
 
 
SEZIONE TERZA CIVILE
 
 
 
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
 
 
Dott. SEGRETO Antonio – Presidente –
 
 
 
Dott. TALEVI Alberto – Consigliere –
 
 
 
Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –
 
 
 
Dott. VIVALDI Roberta – rel. Consigliere –
 
 
 
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –
 
 
 
ha pronunciato la seguente:
 
 
 
sentenza
 
 
 
sul ricorso proposto da:
 
 
 
S.V., R.T.I. RETI TELEVISIVE ITAL SPA (in persona del
 
 
 
procuratore speciale S.P.), elettivamente domiciliati
 
 
 
in ROMA, VIA CICERONE 60, presso lo studio dell’avvocato PREVITI
 
 
 
CARLA, che li rappresenta e difende con procura speciale del notaio
 
 
 
dr. Arrigo Roveda, in Milano, del 26/06/08, rep. 39136;
 
 
 
– ricorrenti –
 
 
 
contro
 
 
 
S.E., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLE
 
 
 
MUSE 8, presso lo studio dell’avvocato PACE ALESSANDRO, che lo
 
 
 
rappresenta e difende unitamente agli avvocati LE PERA GIOVANNI,
 
 
 
GRANDINETTI OTTAVIO giusta procura a margine del controricorso;
 
 
 
– controricorrenti –
 
 
 
avverso la sentenza n. 3533/2003 della CORTE D’APPELLO di ROMA, prima
 
 
 
sezione civile, emessa il 24/06/2003, depositata il 21/07/2003,
 
 
 
R.G.4639/01;
 
 
 
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
 
 
 
22/10/2008 dal Consigliere Dott.ssa VIVALDI ROBERTA;
 
 
 
udito l’Avvocato PREVITI Carla;
 
 
 
udito l’Avvocato PACE Alessandro;
 
 
 
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE
 
 
 
NUNZIO WLADIMIRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
 
 
 
 
 
 
 
FATTO
 
 
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 
 
 
S.E. conveniva, davanti al tribunale di Roma, S. V. e la R.T.I. spa chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle dichiarazioni rese da S. V. nel corso della trasmissione "(OMISSIS)" del (OMISSIS), diffusa dall’emittente (OMISSIS).
 
 
 
Esponeva che, nel corso di tale trasmissione, il conduttore S. V., nel commentare le notizie relative al diniego dell’autorizzazione a procedere nei confronti dell’on. C. B., aveva usato espressioni gravemente offensive e diffamatorie nei suoi confronti; espressioni delle quali riportava il tenore.
 
 
 
Il convenuto, costituitosi, contestava la fondatezza della domanda.
 
 
 
Invocava, in particolare, l’applicazione dell’art. 68 Cost., la scriminante, anche putativa, dei diritto di critica, evidenziando l’eccessività delle somma richiesta dall’attore, nonchè l’incongruità dell’ordine di pubblicazione e di diffusione del dispositivo, richiesti.
 
 
 
Il tribunale, con sentenza del 13.2.2001, condannava i convenuti in solido al risarcimento dei danni non patrimoniali, nella misura di L. 50.000.000 oltre interessi, e rigettava la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali, perchè non provati, e la richiesta di pubblicazione e divulgazione della sentenza.
 
 
 
Proponeva appello principale lo S. chiedendone la riforma.
 
 
 
In particolare, chiedeva l’applicazione dell’art. 68 Cost., del D.L. n. 555 del 1996, reiterato fino al 23.12.1996, l’insussistenza della diffamazione, l’esimente del diritto di cronaca; in subordine, contestava l’eccessività della somma liquidata dal primo Giudice.
 
 
 
Si costituivano lo S.E. e la R.T.I. spa che proponevano anche appello incidentale.
 
 
 
La Corte d’Appello, con sentenza del 21.7.2003, in parziale accoglimento dell’appello incidentale proposto dallo S.E., condannava lo S. e la R.T.I. spa, in solido, al risarcimento dei danni nella misura di L. 100.000.000; respingeva gli appelli, principale ed incidentale della R.T.I. spa.
 
 
 
Hanno proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi S.V. e la R.T.I. spa.
 
 
 
Resiste lo S.E..
 
 
 
Quest’ultimo e la R.T.I. hanno, anche, presentato memoria.
 
 
 
DIRITTO
 
 
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
 
 
 
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., e art. 323 c.p.c., (art. 360 c.p.c., n. 3).
 
 
 
Il motivo non è fondato.
 
 
 
Le conclusioni formulate dall’attuale resistente nel giudizio di primo grado, come risulta dal ricorso e non è contestato dai ricorrenti, erano nel senso della richiesta di condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, con la indicazione della somma di L. un miliardo, o della diversa somma ritenuta di giustizia.
 
 
 
La semplice indicazione, nel senso sopra indicato, delle conclusioni precisate dell’attore nel giudizio di primo grado rende di tutta evidenza l’inconsistenza della censura avanzata con tale motivo di ricorso.
 
 
 
La domanda, considerata come alternativa dagli attuali ricorrenti, deve, infatti, essere interpretata come subordinata; con la conseguenza che l’interesse alla proposizione dell’appello nasce dal rigetto della domanda proposta come principale.
 
 
 
Come più volte affermato da questa Corte (v. da ultimo Cass. 27.7.2005 n. 15705) sul punto, poichè il principio contenuto nell’art. 100 c.p.c., a norma del quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario avervi interesse – si applica anche al giudizio di impugnazione, l’interesse ad impugnare una sentenza, od un capo di essa, si ricollega ad una soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio; soccombenza intesa in senso sostanziale e non formale.
 
 
 
Ne consegue che l’interesse ad impugnare una pronuncia sorge quando una delle parti in causa non abbia visto accolte integralmente le domande ed eccezioni formulate.
 
 
 
Nell’ ipotesi in cui siano proposte in giudizio – come nella specie – una domanda in via principale e l’altra in via subordinata, la configurabilità della soccombenza va, quindi, esclusa soltanto quando venga accolta la domanda principale.
 
 
 
Nel caso in cui, viceversa, venga accolta la domanda subordinata, si ha soccombenza parziale, con conseguente interesse alla impugnazione.
 
 
 
L’accoglimento della domanda proposta in via soltanto subordinata, pertanto, comporta la sussistenza dell’interesse: all’impugnazione, con la conseguente proponibilità dell’appello.
 
 
 
Nella specie, è di tutta evidenza che la somma ritenuta di giustizia è quella che il primo Giudice, sulla base delle risultanze probatorie, ha ritenuto spettante.
 
 
 
Ed è su di tale statuizione che si è imperniata la domanda di riforma formulata in appello dallo S.E., il quale ha ritenuto esigua la somma liquidatagli dal primo Giudice.
 
 
 
In ogni caso, la richiesta avanzata con le conclusioni rassegnate nel giudizio di primo grado, non potrebbe, in alcun caso, essere considerata come rimessa alla valutazione del solo Giudice di primo grado, senza possibilità di chiedere al Giudice di appello la riforma in melius – attraverso un nuovo esame – della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno dal primo Giudice.
 
 
 
Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 68 Cost., e della L. n. 140 del 2003, art. 3, commi 1 e 3.
 
 
 
Preliminarmente deve disattendersi l’argomento prospettato dal resistente secondo il quale la negazione della insindacabilità delle espressioni usate dallo S. comporterebbe de plano "che il Giudice a quo altro non poteva fare che ritenere sindacabili le espressioni diffamatorie del ricorrente".
 
 
 
La questione merita alcune precisazioni.
 
 
 
Alla negazione di insindacabilità delle espressioni in questione da parte della Camera dei deputati, non consegue automaticamente, sotto il profilo oggettivo, la sussistenza di una condotta diffamatoria, essendo una tale valutazione rimessa alla cognizione del Giudice ordinario.
 
 
 
Per quel che, poi, attiene al profilo soggettivo, deve sottolinearsi che l’organo parlamentare, con l’adozione della decisione in ordine alla sindacabilità o meno delle espressioni usate da un parlamentare, sì pronuncia esclusivamente sulla prerogativa parlamentare, dovendo, poi, rimettere alla competenza esclusiva del giudice ordinario la pronuncia in ordine al riconoscimento o meno della responsabilità ascrivibile al soggetto chiamato a rispondere – penalmente o civilmente – della condotta allo stesso imputata.
 
 
 
Diversamente opinando, si profilerebbe, infatti, un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato, per la invasione in un territorio da parte di un organo non deputato a pronunciarsi in merito al comportamento censurato.
 
 
 
Ciò detto, passiamo, ora, ad esaminare il motivo proposto.
 
 
 
Lo stesso non è fondato.
 
 
 
A tal fine deve rilevarsi che l’art. 68 Cost., comma 1, stabilisce che i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
 
 
 
Nella giurisprudenza costituzionale, il cit. art. 68, è stato interpretato nel senso che, ai fini del riconoscimento di questa immunità, la norma, anche se non si riferisce a tutti i comportamenti di chi sia membro delle Camere, ma solo a quelli funzionali all’esercizio delle attribuzioni del potere legislativo, non riguarda solo gli atti tipici del parlamentare, ma comprende anche ciò che di essi sia presupposto o conseguenza (in questo senso, Cass. 5.12.1997 n. 375; Cass. ord. 7.7.1998 n. 298; Cass. 18.7.1998 n. 298; Cass. 20.7. 1999 n. 329; Cass. 17.5.2001 n. 137;
 
 
 
Cass. 14.6.2001 n. 191; Cass. 19.7.2004 n. 13346; Cass. 26.9.2005 n. 18781; Cass. 12.4.2006 n. 8626; Cass. 6.9.2007 n. 18689).
 
 
 
Questo significa che l’attività è giustificata quando sia divulgativa all’esterno di attività parlamentare, ossia se ed in quanto esista una sostanziale corrispondenza di significato con opinioni già espresse o contestualmente espresse nell’esercizio di funzioni parlamentari (Corte cost. 6.12.2002 n. 521).
 
 
 
Tale disciplina, sostanzialmente, è rimasta immutata dopo la L. 20 giugno 2003, n. 140, contenente, fra l’altro, disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 (Corte cost. 24.1.2005 n. 28).
 
 
 
La cit. L. art. 3, infatti, stabilisce che l’art. 68 Cost., comma 1, si applica, in ogni caso, per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare, per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento.
 
 
 
In altri termini, la norma, pur ampliando il concetto di espressione del voto garantito, non ha mutato il principio del legame funzionale, necessario per la configurazione della giustificazione contenuta nel testo costituzionale, fra le opinioni espresse o gli atti compiuti e l’esercizio di funzioni parlamentari.
 
 
 
La stessa Corte costituzionale, con riferimento all’attività espletata fuori del Parlamento, infatti, ha sempre affermato che deve esistere un legame funzionale fra l’opinione espressa o gli atti compiuti e l’esercizio di funzioni parlamentari.
 
 
 
E ciò, perchè, non qualsiasi opinione espressa dai membri delle camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni.
 
 
 
La ragione giustificatrice di un tale assunto è che la prerogativa dell’insindacabilità non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe un’immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera qualità di parlamentare.
 
 
 
Ciò che è richiesto, invece, è la identificabilita della dichiarazione resa, quale espressione di attività parlamentare.
 
 
 
Occorre, in altri termini, la riproduzione, all’esterno delle Camere, di dichiarazioni rese in sede parlamentare e tale riproduzione non è sindacabile ove si riscontri l’identità sostanziale di contenuto fra l’opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata in sede esterna (Corte cost. 11.1. 2001 n. 11).
 
 
 
In tal modo, per l’attività del parlamentare che si svolga fuori delle sedi istituzionali, continua a rilevare il cosiddetto nesso funzionale, tra l’attività e la funzione protetta, il quale è il solo che consente di distinguere le opinioni del parlamentare, riconducibili alla libera manifestazione del pensiero, garantita ad ogni cittadino nei limiti generali della libertà di espressione, da quelle che riguardano l’esercizio della funzione parlamentare (Corte cost. 16.4.2004 n. 120).
 
 
 
In una tale prospettiva, la stessa Corte ha chiarito il significato del concetto di nesso funzionale, affermando che le dichiarazioni rese extra moenia, in tanto possono essere coperte dalla garanzia di insindacabilità, in quanto siano collegate da nesso funzionale ad un’attività parlamentare precedentemente svolta, restando invece irrilevante quella successiva (Corte cost. 19.11. 2004 n. 348; v. in tal senso anche Cass. 6.9.2007 n. 18689; Cass. 12.4.2006 n. 8626;
 
 
 
Cass. 26.9.2005 n. 18781; Cass. 19.7.2004 n. 13346).
 
 
 
E questo perchè il termine "opinioni espresse", contenuto nell’art. 68 Cost., rende inconfutabile un’iniziale perseguibilità del parlamentare cui possa, eventualmente, sovrapporsi un successivo atto parlamentare che la escluda (Corte cost. 19.11. 2004 n. 347 e 24.1.2005 n. 28).
 
 
 
Questi principi si applicano anche al caso in esame.
 
 
 
La sentenza impugnata è espressione di corretta applicazione di tali principi, i quali non sono stati messi in discussione neppure dalle pronunce della Corte costituzionale rese successivamente alla decisione, come si ricava da quanto sopra riportato.
 
 
 
In particolare, deve sottolinearsi che la L. n. 140 del 2003, è solo ricognitiva dell’esistente.
 
 
 
Nè potrebbe essere altrimenti.
 
 
 
Ove, avesse, infatti incluso nell’esimente anche l’attività politica, si sarebbe posta in insanabile contrasto con il contenuto della norma dell’art. 68 Cost., quale fissato dalla stessa Corte costituzionale.
 
 
 
Passando all’esame della disposizione di cui alla L. n. 140 del 2003, art. 3, comma 1, deve, infatti, rilevarsi che con tale legge finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell’art. 68 Cost., comma 1, il Legislatore non ha, per nulla, innovato alla predetta TO disposizione costituzionale, ampliandone o % restringendone arbitrariamente la portata.
 
 
 
Si è, invece, limitato a rendere esplicito il contenuto della disposizione stessa, specificando, ai fini della sua immediata applicazione da parte del giudice, gli atti di funzione tipici, nonchè quelli che, pur non tipici, debbono comunque essere connessi alla funzione parlamentare, a prescindere da ogni criterio di localizzazione.
 
 
 
Ciò, in conformità, del resto, alle indicazioni ricavabili, al riguardo, dalla giurisprudenza costituzionale in materia, incentrata – come già detto – sul necessario riscontro di un nesso funzionale tra dichiarazioni rese e funzione parlamentare svolta, perchè possa operare la predetta prerogativa parlamentare.
 
 
 
Nella specie, – come già rilevato – la Corte di merito ha correttamente applicato i principi così esposti andando esente dalle violazioni alla stessa contestate.
 
 
 
La stessa, infatti, dopo avere dato conto dell’excursus normativo e giurisprudenziale in materia – correttamente riportato, ha rilevato che l’interpretazione prospettata dall’appellante – in relazione allo stretto collegamento individuabile tra le dichiarazioni e la funzione parlamentare dell’on. S., "trattandosi di tipica manifestazione di un giudizio politico espresso da un parlamentare in ordine a fatti politicamente rilevanti e corrispondente, nei contenuti, all’opinione espressa dallo stesso in sede parlamentare" – "finisce con l’obliterare del tutto la correlazione, che pure risulta chiarissima nel testo costituzionale, tra l’insindacabilità delle opinioni espresse e l’"esercizio" della funzione parlamentare, giacchè di fatto, ove si aderisse alla predetta interpretazione, qualsiasi dichiarazione che avesse un contenuto "politico" – nel senso estremamente generico proprio di tale termine – risulterebbe sempre riconducibile alla funzione parlamentare, anche se concretatasi nella mera ed esplicita denigrazione dell’avversario politico; la norma costituzionale, in realtà, non ha inteso tutelare l’attività politica del parlamentare, ma soltanto quelle specifiche attività in cui si riflette l’esercizio della funzione parlamentare, concludendo, sul punto, che Alla stregua di tali premesse, si deve escludere che nella specie possa ravvisarsi il collegamento invocato dall’appellante tra le dichiarazioni all’origine della controversia e l’esercizio delle funzioni parlamentari; di certo, non possono essere condivise le considerazioni espresse dalla difesa dell’appellante circa la "sostanziale identità di contenuti" tra la dissertazione svolta dal medesimo circa i rapporti tra D.B. e S. E. e la precedente manifestazione di voto, espressa in Parlamento, contro la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’on. C.; si tratta di due vicende palesemente diverse che sono state collegate dall’on. S. soltanto in funzione di un ragionamento diretto a criticare ed a svilire le posizioni assunte dal giornale "(OMISSIS)"; ragionamento, astrattamente legittimo solo se condotto nei modi e nei limiti propri del diritto di critica".
 
 
 
Ed a tale riguardo, deve aggiungersi la correttezza dei principii espressi e dell’accertamento compiuto dalla Corte di merito in ordine all’esercizio, alle modalità ed ai limiti del diritto di critica.
 
 
 
Sotto il primo profilo la Corte di merito si è attenuta al principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, per cui vi è legittimo esercizio del diritto di cronaca quando vengano rispettate le seguenti condizioni: a) la verità (oggettiva o anche soltanto putativa purchè frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca e controllo del giornalista non solo sulla fonte ma anche sulla verità sostanziale) delle notizie; condizione che non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o anche colposamente taciuti altri fatti tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato, ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive ovvero da sottintesi, accostamenti, insinuazioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore o dell’ascoltatore false rappresentazioni della realtà oggettiva; b) la continenza, e cioè il rispetto dei requisiti minimi di forma che debbono caratterizzare la cronaca e anche la critica (come ad esempio l’assenza di termini esclusivamente insultanti); c) l’interesse pubblico all’informazione in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione o altri caratteri del servizio giornalistico" (Cass. 19.1.2007 n. 1205).
 
 
 
Con la conseguenza che, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purchè siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato (Cass. 16.5.2008 n. 12240; Cass. 8.11.2007 n. 23314;
 
 
 
Cass. 8.8.2007 n. 17395; Cass. 6.8.2007 n. 17172; Cass. 20.10.2006 n. 22527).
 
 
 
Ciò che, invece, la Corte di merito ha ritenuto sussistere.
 
 
 
Sotto il secondo profilo, infatti, la stessa ha formulato il proprio apprezzamento in concreto in ordine alle espressioni usate, come lesive dell’altrui reputazione, escludendo, quindi, l’esimente del diritto di critica.
 
 
 
Ora, tali valutazioni, costituendo accertamenti di fatto – istituzionalmente riservati al Giudice di merito – in quanto sorrette – come nella specie – da motivazione congrua ed esente da vizi logici giuridici, sono incensurabili in sede di legittimità (v. da ultimo Cass. 8.8.2007 n. 17395).
 
 
 
Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 342 c.p.c., comma 1;
 
 
 
omessa, insufficiente contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).
 
 
 
Il motivo non è fondato.
 
 
 
Dal complesso della sentenza emerge che il Giudice di appello, così come il primo Giudice – che ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali perchè non provati – ha liquidato soltanto i danni non patrimoniali.
 
 
 
La Corte di merito ha, infatti, in tale contesto, esaminato e valutato i criteri che attengono alla quantificazione del danno non patrimoniale, motivando correttamente e puntualmente il proprio convincimento in relazione all’entità dell’offesa prodotta, alla notorietà dei personaggi coinvolti, ed alla potenzialità di divulgazione del mezzo adoperato, adottando le proprie conclusioni conformemente ai parametri di liquidazione dei danni non patrimoniali.
 
 
 
Il riferimento al lucro cessante risulta, quindi, di tutta evidenza, essere frutto di un semplice errore grafico, e, nell’argomentazione della sentenza, sta ad indicare soltanto la proiezione, anche in futuro, del danno non patrimoniale.
 
 
 
Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 68 Cost., e della L. n. 140 del 2003, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; motivazione insufficiente sul punto decisivo della controversia rappresentato dall’applicabilità dell’art. 68 Cost., anche alla R.T.I., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
 
 
 
Contestano il riconoscimento della responsabilità della RTI, sul presupposto della operatività della scriminante di cui all’art. 68 Cost., quale causa oggettiva di esclusione dell’illecito, con la conseguente preclusione di una pronuncia di condanna, sia a livello penale, sia civile.
 
 
 
Il motivo non è fondato sotto più profili.
 
 
 
Deve, infatti, rilevarsi che, con riferimento all’esame del secondo motivo, questa Corte ha concluso nel senso della non ricorrenza della insindacabilità di cui all’art. 68 Cost..
 
 
 
Ne consegue che, nella specie, difetta il presupposto per l’operatività della esimente.
 
 
 
Peraltro, l’esimente in parola ha solo carattere soggettivo e non oggettivo, come ritenuto dai ricorrenti.
 
 
 
La prerogativa dell’insindacabilità dei voti e delle opinioni dei parlamentari fissata nell’art. 68 Cost., configura, infatti, sul piano sostanziale, una causa di esonero dalla responsabilità dell’autore delle dichiarazioni contestate (quindi non come scriminante o causa di giustificazione), e – correlativamente – sul piano formale, si traduce in una preclusione per l’autorità giudiziaria a superare la delibera parlamentare che riconosca l’attinenza delle dichiarazioni stesse all’esercizio della funzione, salva restando la sola possibilità di provocare, attraverso il conflitto fra poteri, il controllo della Corte Costituzionale sulla "correttezza" di detta delibera.
 
 
 
Ciò significa che non si è in presenza di una garanzia di natura esclusivamente processuale, intesa come sottrazione assoluta alla giurisdizione, quanto, invece, di una causa personale di esclusione della responsabilità (S.U. 18.3.1999 n. 153; v. anche Cass. 7.6.1999 n. 5573; Cass. 5.5.1995 n. 4871; Cass. pen., sez. 5^, 17.4.2000 n. 4678).
 
 
 
Al che consegue soltanto che debba escludersi – in tal caso – soltanto la responsabilità del soggetto che della stessa può avvalersi, senza, peraltro, escludersi l’antigiuridicità oggettiva del fatto materiale; con ciò, l’inestensibilità a soggetti diversi che, a qualsiasi titolo abbiano concorso nel reato.
 
 
 
Nè ha pregio, in senso contrario, il richiamo all’ordinanza della Corte Costituzionale del 23.1.2001 n. 20.
 
 
 
Con la stessa, infatti, il Giudice delle Leggi ha solo dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della L. n. 47 del 1948, artt. 11 e 12, sollevata con riferimento all’art. 68 Cost., comma 1, con la seguente motivazione: "il rimettente vorrebbe, quindi, estendere l’esonero dalla responsabilità al direttore del giornale e all’editore, ma non trae le conseguenze applicative dell’interpretazione che egli stesso considera conforme al parametro costituzionale evocato… in definitiva, il rimettente ha sottoposto a questa Corte esclusivamente una questione di interpretazione dell’art. 68 Cost., comma 1, e non già una questione concernente il contrasto tra il significato da attribuire alle norme ordinarie da applicare nel giudizio a quo e il parametro costituzionale evocato".
 
 
 
Ciò significa soltanto che la Corte Costituzionale ha ritenuto che competa al Giudice del rinvio adottare l’interpretazione della norma che ritenga più adeguata, senza per questo impegnare la Corte in ordine ad una supposta illegittimità costituzionale della tesi costantemente affermata nella giurisprudenza di legittimità.
 
 
 
Con il quinto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055, 2059 c.c., e art. 185 c.p., e L. n. 223 del 1990, art. 30, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; motivazione insufficiente e contraddittoria su punto decisivo della controversia, rappresentato dall’estensione della responsabilità civile alla RTI in assenza di elemento soggettivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
 
 
 
I ricorrenti contestano alla Corte di merito di avere riconosciuto alla RTI una responsabilità da reato che andava ascritta al solo S..
 
 
 
Inoltre, per quel che riguarda la responsabilità per le repliche del programma, sostengono che le stesse, in ogni caso, avrebbero dovuto comportare il riconoscimento di un minore danno ascrivibile alla RTI. Il motivo non è fondato.
 
 
 
Deve, a tal fine, rilevarsi che – sulla base di un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte – una lettura costituzionalmente orientata della norma dell’art. 2059 c.c., non leghi più la norma stessa esclusivamente alla configurazione di un reato (Cass. 31.5.2003 n. 8827; Cass. 31.5.2003 n. 8828; Cass. 20.10.2005 n. 20323; Cass. 21.10.2005 n. 20355 e successive conformi).
 
 
 
Ha infatti, rilevato la Corte di legittimità che, nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.
 
 
 
Si deve quindi ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di "danno non patrimoniale", inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come "danno morale soggettivo".
 
 
 
Ciò che rileva, infatti, ai fini dell’ammissione al risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c., è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica.
 
 
 
Quanto, poi, al limite al quale l’art. 2059 c.c., del 1942 assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p., (ma v. anche l’art. 89 c.p.c.), deve ritenersi ormai consolidato, nella giurisprudenza della Corte di legittimità, il principio secondo cui, venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, va escluso che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p..
 
 
 
Una lettura della norma costituzionalmente orientata – come già detto – impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti.
 
 
 
Occorre considerare, infatti, che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto, la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, poichè ciò si risolve in un rifiuto di tutela nei casi esclusi (v. anche Corte cost., sent. n. 184/86, che si avvale tuttavia dell’argomento per ampliare l’ambito della tutela ex art. 2043 al danno non patrimoniale da lesione della integrità biopsichica; ma l’argomento si presta ad essere utilizzato anche per dare una interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c.). Il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, quindi, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo, configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
 
 
 
Le considerazioni riportate conducono – quindi – a ritenere che nella struttura dell’art. 2043 c.c., l’illecito sia perfezionato anche dalla sola colpa.
 
 
 
Ne consegue che prive di pregio appaiono le censure sul punto mosse alla sentenza impugnata, sia in ordine al riconoscimento di una responsabilità della RTI "scissa da qualsiasi accertamento sul profilo richiesto dagli artt. 2043 e 2059 c.c.", sia di insufficiente e contraddittoria motivazione.
 
 
 
Sotto il profilo delle violazioni contestate, infatti, la Corte ha ritenuto sussistere una responsabilità diretta per colpa della RTI, ravvisata, sia nella messa a disposizione, allo S., dello spazio televisivo senza alcun previo controllo, sia nella messa in onda delle repliche della trasmissione.
 
 
 
Con riferimento al primo di tali aspetti, la Corte di merito ha espresso il suo convincimento che "l’emittente televisiva era certamente pienamente consapevole dei contenuti generali e delle connotazioni tipiche della trasmissione, andata in onda per anni, in fasce orarie di rilevante ascolto, significativamente intitolata (OMISSIS), proprio perchè basata sulla nota vis polemica del conduttore", aggiungendo, in questa ottica, specificamente, che non si trattava "di dichiarazioni andate incidentalmente in onda nel corso di una trasmissione in diretta, ma di una precisa scelta editoriale diretta alla realizzazione di un programma incentrato esclusivamente sulle capacità polemiche dell’on. S. – che nel contratto veniva espressamente qualificato "attore, conduttore ed entartainer" – divenuto noto presso il pubblico, non certo per le sue specifiche doti di opinionista o di critico d’arte, quanto per le invettive e gli atteggiamenti aggressivi che caratterizzavano i suoi interventi televisivi".
 
 
 
Quanto, poi, alle messa in onda delle repliche della stessa trasmissione – fonte anch’essa di una responsabilità diretta dell’emittente televisiva – ha ritenuto sussistere una "specifica responsabilità connessa alla circostanza che la trasmissione "(OMISSIS)" era sistematicamente oggetto di repliche nell’ambito della stessa giornata, in una diversa fascia oraria; e sembra chiaro che, rispetto a trasmissioni registrate, non abbia alcun senso parlare di estraneità dell’emittente televisiva rispetto al prodursi del fatto dannoso che deriva dalla messa in onda di dichiarazioni diffamatorie" concludendo – sulla base di tali premesse – che "del tutto corretta si configura", pertanto, "l’affermazione della responsabilità solidale dell’on. S. e della s.p.a.
 
 
 
R.T.I. Reti Televisive Italiane, tenuti a rispondere delle conseguenze lesive derivate dal concorso delle condotte illecite specificamente riferibili agli stessi".
 
 
 
Trattasi di motivazione, corretta e convincente, priva di errori logici o giuridici, come tale non censurabile sotto il profilo della insufficienza.
 
 
 
Neppure condivisibile è la censura di contraddittorietà della stessa motivazione.
 
 
 
I ricorrenti, infatti, sostengono, a tal fine, che, avendo la Corte di merito riconosciuto la responsabilità della RTI, non per la diffusione del programma in diretta, ma per le repliche "in diversa fascia oraria", contraddittoria doveva considerarsi la motivazione della sentenza che aveva omologato l’entità del risarcimento dei danni cui erano stati condannati gli odierni ricorrenti, anzichè diversificarlo con l’attribuzione di un minore danno provocato alla RTI. Anche sotto tale profilo, la censura non coglie nel segno.
 
 
 
La Corte di merito, infatti, – come più sopra evidenziato – non ha riconosciuto la responsabilità della RTI esclusivamente per le repliche in diversa fascia, ma, sia per la messa in onda della trasmissione che aveva determinate caratteristiche, senza attuare quel controllo che configura una colpa addebitabile a titolo diretto alla RTI, sia in ordine alle repliche mandate in onda; riconoscendo, quindi, sia una "responsabilità di ordine generale legata alla scelta editoriale", sia una responsabilità per quel che riguarda le repliche mandate in onda nella stessa giornata, in diversa fascia oraria. Ne consegue che, difettando il presupposto della censura, così come proposta, nessun vizio di contraddittorietà della motivazione può essere imputato alla Corte di merito che ha liquidato il danno nella medesima entità, nei confronti di entrambi gli odierni ricorrenti.
 
 
 
Conclusivamente, il ricorso va rigettato.
 
 
 
Da ultimo, deve rigettarsi anche la richiesta di condanna al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità aggravata proposta dal resistente, in questa sede, ai sensi dell’art. 96 c.p.c..
 
 
 
Deve, a tal fine, in primo luogo evidenziarsi la proponibilità di tale domanda – la cui natura è extracontrattuale – per la prima volta in sede di legittimità, se concerne i danni che si riconnettono esclusivamente al giudizio di cassazione.
 
 
 
Peraltro, anche in questo caso, è richiesta come nell’ipotesi in cui fosse stata già proposta nel giudizio di merito – la prova, che incombe alla parte istante, sia dell’an, sia del quantum debeatur;
 
 
 
od, ancora, che, pur essendo la liquidazione effettuabile d’ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass. 8.6.2007 n. 13395).
 
 
 
Ora, nella specie, l’istante non ha provato, nè l’esistenza delle condizioni per il riconoscimento di tali danni – cioè la mala fede o la colpa grave, nè ha indicato quali siano i supposti danni, dei quali chiede la liquidazione in via equitativa.
 
 
 
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico solidale dei ricorrenti.
 
 
 
P.Q.M.
 
 
 
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese che liquida in complessivi Euro 2.600,00, di cui Euro 2.500,00, per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.
 
 
 
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 22 ottobre 2008.
 
 
 
Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2008
 
 
 
 
 

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